sabato 23 novembre 2013

La Langa

La Langa è un racconto pubblicato il primo marzo del 1941 su il " Messaggero ", quando l'autore era impegnato presso la sede romana della Einaudi, raccoglie in sé alcuni dei più significativi spunti pavesiani, che ritorneranno, meglio definiti, nel romanzo " La luna e i falò ".
Il tema dell'emigrato che ritorna al proprio paese:" tornai a casa e rivisitai le mie colline. Dei miei non c'era più nessuno, ma le piante e le case restavano e anche qualche faccia nota. Lo stradone provinciale e la piazzetta erano molto più angusti di come me li ricordavo, più terra terra, e soltanto il profilo lontano della collina non era mutato. Le sere di quell'estate, dal balcone di quell'albergo, guardai sovente la collina e pensai che in tutti quegli anni non mi ero ricordato di inorgoglirmene come avevo progettato. Mi accadeva, se mai, adesso, di vantarmi con i vecchi compaesani della molta strada che avevo fatta e dei porti e delle stazioni dov'ero passato. Tutto questo mi dava una malinconia che da un pezzo non provavo più ma che non mi dispiaceva. In questi casi ci si sposa, e la voce della vallata era infatti ch'io fossi tornato per scegliermi una moglie. Diverse famiglie, anche contadine, si fecero visitare perché io vedessi le figliuole. Mi piacque che in nessun caso cercarono di apparirmi diversi da come li ricordavo: i campagnoli mi condussero alla stalla e portarono da bere all'aia, i borghesi mi accolsero nel salottino poco usato e stemmo seduti in cerchio fra le tendine pesanti mentre fuori era estate. Neanche questi tuttavia mi delusero: accadeva che in certe figliuole che scherzavano imbarazzate riconoscessi le inflessioni e gli sguardi che mi erano balenati dalle finestre quand'ero ragazzo. Ma tutti dicevano ch'era una bella cosa ricordarsi del paese e ritornarci come facevo io.
Io non mi sposai. Capii subito che se mi fossi portata dietro in città una di quelle ragazze, anche la più sveglia, avrei avuto il mio paese in casa e non avrei mai più potuto ricordarmelo come adesso me n'era tornato il gusto. Ciascuna di loro, ciascuno di quei contadini e possidenti, era soltanto una parte del mio paese, rappresentava una villa, un podere, una costa sola. E invece io ce l'avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi, non più per dire :" Conoscete quei quattro tetti "? ma per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre e quella terra non esisteva nulla. Ripresi dunque a viaggiare promettendo in paese che sarei tornato presto. Lo credevo ma passati degli anni e dopo aver rimandato il mio ritorno che quasi non oso più prendere quel treno. In mia presenza i compaesani capirebbero che li ho giocati, che li ho lasciati discorrere delle virtù della mia terra soltanto per ritrovarla e portarmela via. Capirebbero adesso tutta l'ambizione del ragazzo che avevano dimenticati. Alcuni critici tra cui (Guido Piovene Corriere della sera 25 agosto 1965) che Pavese avesse il gusto dell'accasciamento, dell' abbandono, della snervante dolcezza e una spietata volontà di scatto titanico.
Personalmente aggiungo che nella situazione di oggi Pavese  stabile o transitoria che sia, con una decisiva e determinata motivazione potrebbe avere un' altra sorte.

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