Era il 1967, Fiorucci aveva alle spalle il lavoro nei negozi di pantofole del padre in via Torino, in Eustachi in una laterale di corso Buoenos Aires a Milano. Tutta la vicenda Fiorucci prende avvio da un atto di attenzione. Un giorno il figlio del commerciante di pantofole pensò a un modello di galosce in plastica, coloratissime. La galoscia era un articolo antichissimo e ormai in disuso. La plastica e il colore la rilanciarono. Fu un incredibile successo di vendita. Nei consumi bolliva qualcosa di nuovo, nuovi bisogni, un mutamento del gusto. Era il '67. Alle porte del costume premeva una generazione confusamente affamata di ribellioni. Qualcosa si stava muovendo anche da noi, ma a livello elitario.
Al Santa Tecla di Milano e al Piper di Roma era passato il rock e imperava lo yé-yé. Spuntavano i figli dei fiori e s'incatenavano ai semafori in nome della pace. Si era alla vigilia del '68 e del suo pasticcio ideologico. Il femminismo andava irrobustendosi. Quella generazione spendeva, lo scoprì un'indagine demoscopica, 540 miliardi l'anno in divertimenti e consumi voluttuari. Era un mercato fertile, nuovissimo. Fiorucci ci si buttò, diventando l'ambasciatore, il divulgatore, l'interprete all'italiana, l'estremizzatore dell'altra moda, dei colori strillanti di provocazioni, di trasgressioni. Il fioruccismo è stato lo stile di vedere le cose e di rimpaginarle con una cultura senza tabù. Da allora e per circa due decenni vestire Fiorucci con minigonne in tulle, di jeans che modellavano le natiche come calamita dell'erotismo, fu l'annullamento delle barriere sociali.
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